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Violenza psicologica. Cosa fare
La violenza sulle donne è storicamente la forma più evidente in cui si sono manifestati tutti i tentativi di manipolarne, comprimerne, soggiogarne e annientarne il potere numinoso.
Di tutte le forme di violenza che si possono consumare tra le mura domestiche, quella psicologica è la più infida perché meno evidente. Striscia silenziosa mietendo vittime che sfuggono a ogni ricerca statistica e, a causa della difficoltà di riconoscerne gravità e pericolo spesso anche da parte di chi la subisce, raramente finisce nelle aule dei tribunali penali. La causa è la mancanza di consapevolezza che anche quella psicologica sia una forma grave di violenza capace di generare ferite profonde. A volte mortali.
L’arma per contrastarla è l’informazione. Il pericolo in cui incorrono le vittime sta nel fatto che, non manifestandosi apertamente con segni esteriori evidenti, la violenza psicologica è difficile da identificare. Chi la subisce spesso, proprio perché non si rende conto del pericolo che corre, non chiede aiuto e non si ribella e può arrivare sino all’istinto di suicidarsi.
Se la conoscenza è la strada per prendere coscienza e salvarsi, è necessario sapere che la violenza psicologica si può manifestare in diverse forme. Una tra quelle più subdole è il Gaslighting che, non passando per forme evidenti di aggressione psicologica come intimidazioni o minacce, è più difficile da riconoscere.
Il suo nome deriva dal titolo di un film del 1944 con Ingrid Bergman ambientato nell’Inghilterra vittoriana, Gaslight (“Angoscia”, nella versione italiana). Nel lungometraggio diretto da George Cukor, il protagonista compie delle azioni, come l’alterazione della luce delle candele a gas da cui è tratto il titolo, che portano la moglie a dubitare della sua percezione della realtà al punto da farle credere di essere pazza e che i maltrattamenti subiti sono giustificati da questo.
Con queste continue manipolazioni della realtà e negazioni della sua percezione, il carnefice porta la persona oggetto della sua violenza psicologica a iniziare a dubitare di se stessa e della sua salute mentale.
L’aggressione avviene da una personalità sadica e manipolatoria che, attraverso parole denigratorie o azioni (come spostare mobili e oggetti negando il fatto e attribuendolo alla smemoratezza e all’incapacità di lucidità mentale della vittima) la spinge all’instabilità mentale, all’isolamento e a sentirsi inadeguata su tutti i fronti. Minata in tutte le sue sicurezze, la persona oggetto di questa aggressione teme di ribellarsi perché non vede vie d’uscita.
Perché si continua a stare con un partner che fa vivere nell’orrore? Spesso i gesti manipolatori diretti a isolamento e a svilimento si alternano momenti in cui l’aggressore esalta la persona su cui riversa la sua violenza psicologica e, in una altalena macabra tra svalutazione, dolore e briciole di apparente idillio, confondono la partner mostrandosi falsamente come una presenza costruttiva nella coppia. In realtà è solo una danza disarticolata (come la definisce lo psicoterapeuta Enrico Maria Secci in Narcisisti perversi) che nulla ha a che fare con l’amore. Un po’ come nella violenza fisica l’aggressore prima picchia e poi chiede perdono in ginocchio, abbraccia e promette amore eterno.
Se si vivesse solo nella violenza e negli insulti, sarebbe facile capire di dover scappare. Qui la difficoltà è data proprio da questo comportamento bipolare finalizzato alla manipolazione.
Cosa fare per uscirne?
Staccarsi dall’idea che quello sia amore, prima di tutto. L’amore è reciprocità, rispetto, sostegno e ascolto reciproco. Nell’amore il confronto è costruttivo, non distruttivo. Qualunque altra forma di relazione ha altri nomi, spesso si chiama manipolazione, dipendenza affettiva, relazione malata, ma bisogna smettere di chiamarlo amore. La soluzione è solo una: chiudere la relazione al primo segno di violenza in qualunque forma si presenti.
E se non ci si riesce perché la manipolazione ha annientato la propria capacità sana di fuggire davanti al pericolo, bisogna chiedere aiuto, confrontarsi. Bisognerebbe consultare una/un terapeuta, chiamare il numero gratuito (e attivo 24 ore su 24) 1522 e magari consultare anche un/a avvocata/o.
Il consulto legale può essere utile per capire se sono in atto forme criminose come maltrattamenti in famiglia e atti persecutori. Il consulto psicologico, che si può avere anche gratuitamente in un consultorio familiare o nei centri antiviolenza, può essere utile per capire se si sta vivendo una delle fasi del Gaslighting che vanno dalla distorsione comunicativa del gaslighter che induce la vittima a non credere più in se stessa e a vivere in stato confusionale, sino alla fase di isolamento e depressiva in cui la vittima si convince che il manipolatore abbia ragione, getta le armi, si rassegna, diventa insicura, vulnerabile e dipendente.
Se l’informazione serve alle vittime, non meno utile è la conoscenza del fenomeno da parte di chiunque graviti attorno a chi vive in queste condizioni. Se una richiesta di aiuto c’è, è necessario che chi la riceva sappia cogliere la necessità di agire per rendere consapevole la vittima senza minimizzare. Un compito che potrebbe investire chiunque stia intorno a chi è oggetto di queste forme di violenza, dai/dalle familiari alle/agli amiche/i, in modo che stimolino l’inizio del percorso di ricostruzione della sua identità, della fiducia e del senso di sé e che la porti a liberarsi da una relazione perversa e dolorosa rispetto alla quale esiste una sola strada: la fuga. Senza se e senza ma. Uscire dall’idea di poter o dover salvare un rapporto malato che nulla ha a che fare con l’amore e chiudere ogni ponte senza più voltarsi indietro sin dal primo segnale.
L’amore è un’altra cosa.
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