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La città delle donne di Maria Cristina di Savoia
Cagliari, 1812. Ѐ una fredda mattina di novembre e uno strano silenzio domina il Palazzo Regio di Cagliari. La Corte Sabauda, rifugiata nella capitale del Regno dopo la cacciata dal Piemonte da parte delle truppe napoleoniche in seguito all’annessione alla Francia, è in attesa di sentire un pianto. La regina Maria Teresa d’Austria (1773-1832), sorella della regina di Francia morta tragicamente sulla ghigliottina, sta per partorire e al sesso della nuova vita concepita col re di Sardegna Vittorio Emanuele I (1759-1824) è legato il destino della casata. L’unico possibile erede della Corona è morto a tre anni in circostanze non chiare. “Probabilmente avvelenato – scriverà l’abate Schiaffini, padre spirituale della regina – giacchè il medico gli dava una tal medicina che lo faceva contorcere”. Se non nascerà un maschio la Sardegna sarà persa, passerà ai Carignano, nelle mani di Carlo Alberto.
È un anno difficile. La carestia, le malattie e la fame sono così laceranti che i cagliaritani continueranno a ricordarlo per i secoli a venire con l’espressione “s’annu doxi” (l’anno dodici) per riferirsi a un periodo tragico. Siamo nel periodo caldo dei moti indipendentisti sardi. È l’anno della congiura di Palabanda, la rivolta contro i Savoia che si concluse con l’impiccagione dei cospiratori e i sogni infranti di chi voleva ribellarsi alle nuove insensate tasse per sostenere le spese di Corte.
Tutte le speranze di un futuro migliore sono appese al sesso della nuova vita. Il pianto arriva. Sono le 8 e 50 minuti. Re Vittorio Emanuele viene immediatamente informato. È una femmina e la delusione non viene nemmeno celata. <<Tutta la Corte si ritirò mortificata>>, si legge nel diario di Carlo Felice che descrive l’atmosfera di profondo sconforto che raggelò quell’istante. Ma, in mezzo alla glaciale disillusione e al clima di disgrazia, una bambina piena di vita apriva gli occhi per la prima volta. Bellissima e sana, ma femmina. Ad accoglierla, non il calore di una madre, troppo distratta dal dover sostenere sguardi giudicanti, ma la luce che entrava abbagliante in una stanza affacciata sui tetti di Cagliari, sul promontorio della Sella del diavolo e sul mare.
Maria Cristina, principessa del Regno di Sardegna e futura regina del Regno delle Due Sicilie, è destinata ad una vita di lacerante solitudine emotiva, ma anche di gesti di grazia e potente bellezza.
Del suo passaggio difficilmente si trova traccia nelle monografie sui Savoia perché la “reginella santa” – come la chiamavano già in vita – non cambierà le date della storia, né inciderà nel destino di un’Europa rivoluzionata dall’avventura napoleonica. Il suo passaggio cambierà però la visione del mondo di molte persone e la sua vita è ancora oggi un esempio da imitare. È la vita di una donna straordinaria che offre una chiave di lettura nuova e diversa del periodo dei Savoia di cui abitualmente, nella storia dell’Isola, si ricordano solo le ombre.
Degli intrighi di Corte, dell’etichetta e delle rigidità di un sistema dominato dall’apparenza, hanno fatto emergere il volto umano di una donna che, soprattutto dopo la morte della madre, si trovò a muoversi spaesata come un’intrusa nei corridoi dei Palazzi Reali, in balìa di piani machiavellici e manovre politiche sanguinose dove diventa pedina di una lugubre scacchiera umana.
Prima di morire in circostanze non del tutto chiare, si aprì al mondo con curiosità, intelligenza e una generosità tale che ha portato a proclamarla Venerabile da Pio IX nel 1859, Beata nel 2014 e forse Santa nel prossimo futuro. La prima di Cagliari.
Proclamare beata la moglie del re delle Due Sicilie Ferdinando II (1810-1859) nonché madre del suo successore Francesco II (1836-1894) considerati due bestie nere del Risorgimento, ha incontrato non poche resistenze poiché è stato vissuto come uno schiaffo alla retorica risorgimentale italiana. Ma l’analisi della sua storia ci riporta una figura completamente diversa dall’ambiente nel quale era immersa.
I contemporanei la descrissero come intelligente, colta, bella, con una grazia innata che affascinava chiunque la incontrasse. Il tratto distintivo della sua personalità stava soprattutto nell’enorme attenzione verso i poveri e per la condizione femminile rispetto alla quale sentì forte il bisogno di agire per restituire dignità e libertà di scelta alle donne. Esattamente quella che non ebbe lei quando, alla morte della madre a Torino, non poté nemmeno partecipare al suo funerale perché il re Carlo Alberto le ordinò di partire immediatamente a Napoli per sposare il re delle Due Sicilie Ferdinando II, così rozzo, ignorante, irruento e profondamente diverso dalla sua natura delicata e sensibile che la portò a desiderare, piuttosto, di farsi suora di clausura Da questa scelta la dissuase il suo precettore, padre Terzi, (a cui lei dava 500 scudi al mese perché li distribuisse ai poveri) per assecondare i piani di Carlo Alberto di evitare che i Borboni si unissero troppo alla Francia.
Sul temperamento di Ferdinando è famoso l’episodio in cui il re le sfilò la sedia mentre lei si sedeva al pianoforte, facendola cadere a terra davanti a tutta la corte con suo gran divertimento. Pare che mentre il re di Napoli si contorceva dalle risate lei gli rispose «Credevo di aver sposato il re di Napoli, non un lazzarone».
Così come, Francesca Sanna Sulis, la nobile imprenditrice della terra sarda in cui la regina nacque due anni dopo la sua morte, Cristina avviò un’impresa per la produzione della seta in cui dava lavoro e dignità a tante persone indigenti, perlopiù donne. Con questa impresa e un progetto di istruzione la regina mirava a restituire alle donne la sovranità sulla propria vita. Nella seteria a San Leucio, vicino a Caserta, promulgò uno statuto che ha fatto parlare certi storici di «comunismo» borbonico: eguali diritti ereditari per uomini e donne, libertà assoluta per le giovani di contrarre matrimonio senza il consenso dei genitori, istruzione obbligatoria, una casa per gli orfani, una magistratura elettiva, una serie di attività e risorse con una gestione collettivizzata. Un microcosmo di pari dignità, una città ideale e immaginifica dove la felicità era un diritto inalienabile, non un caso fortuito tra equilibrismi insostenibili.
Procurò impianti tessili di ultima concezione facendoli arrivare dalla Francia e dal Belgio e, con grande acume, istituì dei corsi professionali in cui, operai e periti tessili di Lione, sempre a sue spese, potessero impartire lezioni teorico-pratiche ai/alle suoi/sue operai/e, per assicurarsi che i manufatti prodotti fossero competitivi nel mercato. La regina aveva adottato dei sistemi lavorativi meno faticosi, non limitandosi a dare un salario a chi lavorava nella seteria, ma soprattutto restituendo dignità ai lavoratori e alle lavoratrici.
Per quanto la sua immagine era legata a un’idea di santità, non disdegnava partecipare ai balli di corte. Nel processo di beatificazione la sua passione per il divertimento ha costituito materiale di resistenza. La descrizione della sua partecipazione ai balli è stata oggetto di indagine nella causa di beatificazione da parte del Promotore della Fede, il cosiddetto “avvocato del diavolo“, come se questo suo mostrarsi molto contenta ai balli fosse disdicevole. Maria Cristina amava gli spettacoli a teatro e i balli a Roma, Napoli e Torino, dove capitava si presentasse in abito tradizionale sardo e piume di fenicottero, a memoria di quella terra che lasciò per Torino nel 1815, ma a cui si sentì sempre legata. Un legame reciproco se si pensa che, a cento anni dalla sua nascita, i festeggiamenti per il suo ricordo raccolsero a Cagliari una folla oceanica, tutta la stampa sarda dedicò un mese intero alla sua memoria e un cagliaritano, il canonico Efisio Serra, elargì un sussidio “alle bambine di famiglie bisognose che nasceranno il 14 novembre alle quali verrà imposto al sacro fonte battesimale il nome della Venerabile Maria Cristina”.
Nel 2014 si è celebrata a Napoli la sua beatificazione con duemila persone riunite alla Basilica di Santa Chiara di Napoli e un festeggiamento a cui hanno partecipato i principi Carlo e Camilla, Amedeo d’Aosta, Gabriella di Savoia, la principessa Clotilde moglie di Emanuele Filiberto, numerosi discendenti dei Borbone delle Due Sicilie e una variopinta rappresentanza delle più antiche dinastie reali d’Europa.
Cristina ebbe dei gesti di generosità estrema verso tutti durante tutta la sua vita e fu un’autentica enfante prodige. I sette articoli dello statuto della Colonia di San Leucio fissavano le regole per un’idilliaca vita in comune. Le donne, che a quell’epoca erano ridotte ad automi, spesso vittime delle violenze e dell’alcolismo dei loro mariti, una volta entrate nella comunità e recuperate alla vita, diventano le interlocutrici principali della Regina.
Cavour la definì «charmante et parfaite» ma a volte venne giudicata fredda e avara. In realtà la freddezza era il nome con cui si descriveva un comportamento più contenuto rispetto al temperamento del marito e della sua corte. Rispetto all’avarizia, la verità è che la regina spendeva tutto ciò che aveva in opere di carità. D’accordo col re usò una parte del denaro destinato ai festeggiamenti nuziali per fornire una dote a 240 giovani spose, per riscattare un buon numero di pegni depositati al Monte di pietà e per altre iniziative caritatevoli. Nel convento di S. Domenico Soriano fondò un laboratorio per costruire letti da dare alle famiglie bisognose e si è calcolato che la cifra che destinò alle opere di carità ammontasse a un milione di euro attuali.
Nonostante le sue indubbie doti manageriali nella gestione della comunità di San Leucio e la sua intelligenza, il marito le impedì di occuparsi degli affari di Stato e le fu attribuita un’influenza negativa su di lui a causa della sua avversione per i principi liberali e della posizione che per suo volere venne lasciata ai preti reazionari nei confronti del re.
Per questi motivi Maria Cristina venne considerata una presenza scomoda per gli affari del Regno.
Alle 12 e mezza del 31 gennaio 1836, dopo due settimane dall’aver partorito il suo unico figlio (Francesco), Cristina morì nell’isolamento imposto dal medico di Corte, lasciando al marito, di cui si diceva la picchiasse, la possibilità di stabilire nuove alleanze sposando Maria Teresa D’Austria.
I suoi resti furono tumulati nella basilica di Santa Chiara a Napoli e fu oggetto di culto sin dai giorni successivi alla sua morte.
Smantellata la cassetta sulle scale che percorreva ogni giorno e dove chiunque poteva infilare un biglietto con suppliche e richieste di aiuto economico, di Cristina rimase il ricordo di una regina generosa e il decalogo di vita che scrisse per se stessa:
Non dare retta ai consigli e avvertimenti di tutti.
Pensar bene, prima di far una cosa, alle conseguenze,
Essere garbata con tutti, senza render conto dei fatti miei a nessuno, né dar troppa confidenza.
Non lusingar la gente lasciando credere il falso per compassione di far dispiacere dicendo
la verità
Cristina Muntoni © RIPRODUZIONE RISERVATA
Bibliografia
Cristina Muntoni, Sardegna al Femminile. Storie di donne speciali, ed. L’Unione Sarda, e La Donna sarda.
Da Palma, Vita della venerabile serva di Dio M.C. regina del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1860
Cabibbo, La santità femminile dinastica, in Donne e fede, a cura di L. Scaraffia – G. Zarri, Roma-Bari 1994, pp. 399-418
Ilaria Muggianu Scano e Mario Fadda, Maria Cristina di Savoia. Figlia del Regno di Sardegna regina delle Due Sicilie, Arkadia ed.
Gianni Califano, Beata Maria Cristina di Savoia, regina delle due Sicilie, ed. Velar
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