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Francesca Sanna Sulis
L’identità di un popolo passa anche attraverso storie dimenticate. L’eco di vite grandiose che hanno cambiato il destino di molti uomini non sempre è una pagina da imparare a memoria nei testi scolastici. Soprattutto quando si tratta di donne, queste storie a volte restano tracce nascoste sottopelle nel tessuto narrativo dell’identità sociale, lasciando impunito il crimine silenzioso e implacabile dell’oblio. Rendere giustizia è semplice. Basta raccontarle. In una tra queste storie, il crimine del silenzio in cui è caduta diventa ancora più intollerabile se, a svelarla, si scopre che è il racconto dimenticato della vita di una donna che meriterebbe di essere ricordata con orgoglio al pari di Grazia Deledda ed Eleonora d’Arborea come una delle grandi donne della Sardegna, testimone e artefice della storia dell’Isola e dell’identità del popolo sardo.
Era il 1716. Nella stanza bianca e ariosa di una casa padronale di Muravera nasceva Francesca Sulis, nobildonna che non si arrese al destino scritto per le donne della sua epoca e del suo stato sociale. Limitarsi ad agitare con grazia un ventaglio in un salotto e fare figli maschi non era ciò a cui la portarono a pensare i fermenti illuministi che colorarono la sua educazione. A 19 anni si sposò con don Pietro Sanna Lecca, avvocato del Foro di Cagliari e reggente di Toga al Supremo Consiglio di Sardegna a Torino.
Francesca Sanna Sulis non si limitò a godere passivamente di un patrimonio, ma, attenta e curiosa dei fatti del mondo, scoprì e sfruttò le agevolazioni dell’evoluzione legislativa che conobbe tramite il marito, autore lui stesso di numerose disposizioni come i Pregoni voluti da Carlo Emanuele III. Fu proprio una legge agraria che agevolava la coltivazione del gelso ad aver rivoluzionato la vita della nobildonna e di tutti i 750 sardi e sarde che lavorarono per lei, trasformandola in una delle più importanti figure del Settecento sardo. Grazie alla legge scritta dal ministro Bogino Francesca coltivò a Quartucciu grandi piantagioni di gelso, la pianta necessaria per la coltivazione dei bachi da seta, e si trasformò in una manager ante litteram creando un’impresa tessile tra le più rinomate in Europa. Grazie al clima sardo, i suoi bachi si schiudevano tra il 20 e il 25 marzo, permettendole di far entrare la sua seta nel mercato circa 20 fruttuosi giorni prima di tutti gli altri. Per insegnare la filatura alle sue dipendenti chiamò i maestri dell’Alta Savoia e i capannoni della sua impresa si trasformarono in centri di formazione professionale.
Quando le sue dipendenti si sposavano e si trovavano costrette a seguire il marito in paesi lontani dall’impresa tessile, lei trovò un modo geniale per non buttare via tutte le capacità acquisite e continuare a permettere loro di essere autonome economicamente. Come regalo di matrimonio consegnava un telaio permettendole di continuare il lavoro e di insegnarlo a loro volta ad altre donne. E la dislocazione della produzione d’impresa si sposava con l’incentivazione dell’indipendenza femminile. La seta prodotta dalla nobildonna si rivelò presto essere tra le migliori d’Europa. Ma anche questo non la fermò ad adagiarsi. Francesca osservò quei fili che riflettevano la luce e, ricamando una cuffietta femminile con motivi geometrici e colorati, creò Su Cambusciu, il copricapo in broccato del costume quartuccese. Usare la sua seta per creare, oltre che destinarla alla vendita, le piaceva. Nuove strade si aprirono per la sua impresa. Francesca cominciò a creare abiti e le sue creazioni di seta vestirono regine e principesse. Il conte comasco Giorgio Giulini, amico di Maria Teresa d’Austria, le principesse Savoia e Caterina di Russia, rimase folgorato dai suoi abiti e li portò alla prima sfilata di moda al mondo.
Nel 1748 il Circolo dei nobili a Milano, a due passi dal Castello Sforzesco, si animò con quello che allora apparve uno spettacolo insolito, con modelle che passeggiavano indossando gli abiti creati da Donna Francesca.
Col Conte Giulini creò la prima boutique a Milano e dovette affittare sei navi per trasportare tutta la seta che le veniva ordinata – racconta Lucio Spiga che nel suo volume (Francesca Sanna Sulis, ed. Workdesign), anche grazie al lavoro di ricerca dell’avvocato Giovanni Fara Puggioni, ha raccolto tutti i documenti d’archivio legati alla vita della nobildonna ha aperto una finestra sulla vita finora sconosciuta di questa donna straordinaria a cui re Carlo Alberto di Savoia assegnò postumo il Riconoscimento Regio per l’alto valore dell’opera compiuta.
Dalle finestre della sua casa in Via Lamarmora 61, Donna Francesca sentì i bombardamenti dell’esercito repubblicano francese e vide passare il corteo dei piemontesi in fuga verso il porto nel 1794. Tra i divani di velluto dei salotti cagliaritani e torinesi assistette ai dibattiti dell’Illuminismo, confrontandosi anche col ministro Bogino che rivoluzionò l’Università di Cagliari e Sassari coinvolgendo professori che portarono i principi di Newton, di Galileo, di Paolo Sarpi e dell’Arcadia in una Sardegna ancora tolemaica e aristotelica. La grandezza di questa donna, si rivelò appieno alla fine della sua vita quando, a 92 anni, nel 1808 scrisse il suo testamento. Il patrimonio che aveva a disposizione era immenso. L’eredità del marito rappresentava ormai una piccola parte e dalla sua famiglia non aveva ricevuto che 300 scudi. La sua ricchezza era frutto del suo lavoro e delle sue capacità. La morte dei suoi due figli maschi e la vita monastica a cui si dedicò la figlia, la lasciava decidere liberamente come destinare i suoi averi. Pensò alle donne senza marito e destinò buona parte del suo patrimonio alla loro “liberazione” dalla schiavitù di dover dipendere dalla loro famiglia o di doversi sposare per passare da una dipendenza ad un’altra. Fece poi una donazione all’ospedale di Cagliari e una per assicurare medicinali e assistenza domiciliare per permettere cure gratuite agli ammalati e ammalate che non potevano permettersi assistenza.
Convinta sostenitrice che la cultura dona libertà, dedicò del denaro all’istruzione dei poveri, istituendo premi per i più meritevoli e destinando del denaro per l’acquisto di vestiti per i bambini e le bambine che non frequentano le scuole primarie per mancanza di abiti adatti. Destinò la rendita annuale di una vigna alla festa di Sant’Efisio e con 300 scudi diede disposizioni per la liberazione di cristiani ridotti in schiavitù. Due anni dopo morì e il suo patrimonio che, secondo i legati avrebbe dovuto essere distribuito ad opera della Chiesa, andò disperso. I campi di gelso furono pian piano trasformati in frutteti e nulla dell’impresa tessile rimase. Quello che fu creato da una donna grandiosa, andò disperso da una manciata di uomini. A memoria di questa donna la cui storia era caduta nell’oblio per due secoli la FIDAPA ha dedicato uno spazio nel Parco Letterario, includendo il suo nome tra quelli delle donne più importanti della storia d’Italia. Ricordare questa donna, che rappresenta un modello di vita, significa riscattare un pezzo della nostra identità e non lasciare che sfumi, nell’indifferenza, una pagina luminosa della storia della Sardegna.
RACCONTO
DONNA FRANCESCA
di Cristina Muntoni
Il prete sbatté il bicchiere di vino sul tavolo come se fosse un pugno. Spostò il piatto di cinghiale fumante e puntò il dito verso la ragazza. «Cosa state insinuando? Che la Chiesa avrebbe rubato l’eredità di Donna Francesca?».
– No, no, Don Vittò. È che sono sei mesi che stiamo aspettando, ma non abbiamo avuto nulla. Non abbiamo più lavoro, non abbiamo da mangiare, nessuno ci ascolta, ma lei ci diceva sempre di star tranquille, che anche quando moriva, noi tranquille dovevamo stare. Che lei non aveva eredi e ci lasciava tutto. Un impero ha creato e lo lasciava a noi. A noi operaie, agli ammalati poveri dell’ospedale…
– Uscite!
– …ai bambini che non hanno soldi per i libri e i vestiti per la scuola…
– Andate!
– …alle donne senza marito, “per non passare dalla dipendenza del padre a un’altra”, diceva.
– Non sapeva più fare i calcoli! Ecco. Che vi devo dire? Aveva 92 anni, mica li sapeva più tenere i conti. È stata una grande imprenditrice, va bene, ma ora è finita. Non c’è rimasto niente. Mettetevi l’animo in pace e non tornate più.
Il prete la raggiunse con un balzo urtando il tavolo e rovesciando il bicchiere. Mentre sulla tovaglia di lino si allargava una macchia rossa di cannonau, lui le strinse un braccio spingendola verso la porta della canonica. Lei puntò la mano sull’uscio col braccio teso in un fascio di muscoli disegnati da anni di tessitura al telaio. Era come una sinfonia il rumore ritmico del legno dei licci dentro i capannoni di Quartucciu. Quando arrivavano gli operai coi fili nuovi, il suono secco e deciso del legno diventava più lieve e si fondeva con le risate. È in mezzo a quelle risate che Lucia aveva conosciuto Pietro. Lui la voleva portare al paese dei suoi, dove aveva un pezzetto di terra, e Donna Francesca le aveva detto “Vai, se devi. Io ti regalo il telaio come dono di nozze, tu continui a lavorare per me e lo insegni ad altre ragazze”. Lo faceva con tutte le tessitrici che si sposavano e andavano via. Faceva venire i maestri tessitori dell’Alta Savoia per farle imparare ed era un sapere che non si poteva perdere, diceva. Ma poi Pietro era caduto da un albero di gelso. Era salito sul ramo alto per prendere foglie tenere per i bachi da seta e si era rotto la schiena. Non poteva più camminare e al paese c’erano andati solo per sposarsi.
– Ho tre figli piccoli, don Vittò. I soldi a casa li portavo io, adesso chi ce lo dà il pane? Perché la seteria è chiusa? Ce lo dovete dire perché non ci fanno entrare. Dicono che è roba vostra adesso.
– Eh pregate la Madonna. Donna Francesca era una brava cristiana, voi no. Voi pregate poco e Dio vi punisce così. Pregate di più. Adesso andatevene via che devo finire il mio pranzo. Pure il vino mi avete fatto rovesciare.
– Ma qualcuno ci deve dire! Se ha lasciato tutto alla Chiesa, ci sarà il modo per continuare! Settecentocinquanta siamo senza più lavoro!
– Uscite!
– I vestiti alle principesse Savoia e a Caterina di Russia facevamo. Dovevamo preparare i vestiti per la sfilata a Milano dal Conte Giulini. Tutto bene andava. È morta, santa donna, ma noi possiamo continuare, non può finire tutto. Una vita intera a costruire e un solo giorno per cancellare. Non può essere! Così ci uccidete, noi e tutto il suo lavoro. Anche gli altri vogliono sapere e io gli devo dire qualcosa. Sono sei mesi che le chiediamo di riceverci.
– È inutile che torniate. Ditelo anche agli altri. Inutile. C’erano solo debiti. E poche cose che ha lasciato alla chiesa, che noi qui dobbiamo sempre pensare a tutti. Il testamento l’avete visto? No? Aspettate – disse lasciandole il braccio e prendendo i fogli che teneva in un cassetto lì accanto – Eccolo qua. Sentite. Caller diezjanueve del mes de setiembre mil ochocientosjocho. Jo Dona Maria Francisca Sanna Sulis en edad avanzada, sana però de mente… guardate da voi, guardate.
Lucia prese i fogli. Li guardò a lungo mentre il prete la osservava con le braccia conserte e una smorfia che sembrava un sorriso di trionfo.
– Voi non sapete leggere, ovviamente. C’è scritto che ci sono solo debiti da pagare. Ora sparite e non tornate più. Né voi né gli altri.
Lei ripiegò con calma i fogli e, lentamente, glieli restituì.
– Voi volete che noi ce la dimentichiamo. Che se la dimentichino tutti. Che facciamo finta che sia stato un bel sogno finito, che torniamo a strisciare come vermi e che non se ne parli più. Tornate a bere il vostro vino, Don Vittò. Io so leggere. La scuola ce la pagava lei. Qui c’è scritto quello che sapevo io, non quello che dite voi. E arriverà un giorno, state certo, che qualcuno brinderà ricordando che mentre voi ci avete derubato, una donna ci ha dato dignità e rispetto. E il suo nome era Francesca Sanna Sulis.
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