Rispondere alla domanda è come definire il tempo alla maniera di Sant’Agostino “Se nessuno me lo chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione, non lo so”.
L’anno scorso però ho trovato la risposta in un libro geniale il cui titolo è già una sintesi della soluzione: L’arte come terapia. Secondo i suoi autori, Alain de Botton e John Armstrong, l’arte non sarebbe solo un semplice oggetto di apprezzamento estetico o un mezzo di comunicazione, ma un potente mezzo terapeutico che, se ben utilizzato, sarebbe in grado di migliorare la nostra vita. L’arte sarebbe dunque uno strumento a chiaro scopo funzionale e salvifico. Non veicolo di astrazione pura, ma medicina purissima. Se lo si comprende profondamente, si potrebbe farne un uso terapeutico capace di riportare armonia nel nostro disequilibrio.
Nelle pagine di questo volume, il corollario viene espresso con precisione matematica. Prendiamo ad esempio un sonnolento impiegato del ramo più tranquillo della pubblica amministrazione norvegese con sede vicina al circolo polare artico. Immaginiamo che conduca una vita grigia, scandita da un ritmo monotono e senza sorprese, e che senta un vuoto nella sua esistenza. Se rientrasse in una casa dall’arredamento perfettamente simmetrico e ordinato, se osservasse espressioni artistiche dalle linee pulite e geometriche, cosa sentirebbe? Probabilmente solo l’amplificazione del suo senso di vuoto.
Cosa sentirebbe, invece, se guardasse i dipinti sconvolgenti di Frida Kahlo o il movimento sbalorditivo dell’architettura della cattedrale messicana di Santa Prisca? Probabilmente si sentirebbe più attratto da questi che dalle geometrie perfette e dai colori sbiaditi della sua casa ordinata o dalle sfumature di grigio di Calma piatta di Hiroshi Sugimoto, perché gli regalerebbero un senso di equilibrio, sorprendendolo con un senso di profondo appagamento. Ecco. L’arte, secondo De Bottom e Armstrong, è in grado di fare questo. Di fornirci conforto e di sopperire a un difetto della nostra anima diventando la risposta a un’esigenza della nostra esistenza.
Queste esigenze a cui l’arte darebbe sollievo e nutrimento sarebbero esattamente sette: la memoria, la speranza, il dolore, il riequilibrio, la conoscenza di sé, la crescita e l’apprezzamento.
Fra tutte, quella che mi ha più colpito è la funzione dell’arte rispetto al dolore.
Cosa ci succede quando confessiamo a qualcuno di avere un problema, qualcosa che ci affligge? Cercherà di trovare una soluzione, di indirizzarci verso l’ottimismo e, in una parola, di negare diritto di cittadinanza nel mondo al nostro stato d’animo. Se però in quel
momento osserviamo un’opera come la Scogliera sulla costa di Caspar David Friedrich, o il Fernando Pessoa di Richard Serra, la sensazione che possiamo avere è di vedere sbalorditivamente rappresentato proprio il nostro dolore. Certe opere d’arte, così come avviene nella musica e nella letteratura, ci si mostrano a volte come uno specchio perfetto di un’emozione che non eravamo riusciti a definire, facendoci scoprire che qualcun altro nel mondo ha provato le stesse cose e sia riuscito ad esprimerle esattamente come le proviamo. Un fenomeno rassicurante. Di fronte a quelle opere di Friedrich e Serra possiamo infatti sentirci come davanti a uno specchio che riflette esattamente il nostro stato d’animo, la sofferenza che stiamo attraversando. Se non sono in grado di risolverla, ci fanno comunque sentire che non siamo soli. Un sollievo. Ci fanno sentire che, se qualcun altro li ha già provati, quegli stati d’animo non sono da annullare o soffocare perché fanno parte della vita. Esattamente come la Colonna di Nelson si erige al centro di Trafalgar Square a
Londra per ricordarci l’eroismo dell’ammiraglio, così la Scogliera sulla costa e il Fernando Pessoa sono monumenti dedicati alla nostra frustrazione e ci dicono “Non ignorare il tuo dolore, non gettarlo via” perché si ergono a rappresentare la tristezza come emozione maestosa e onnipresente, trasformandola da esperienza vile a qualcosa di nobile e dignitoso.
Se è capace di operare questo meccanismo alchemico di sublimazione del dolore, si riesce a comprendere profondamente perché si può affermare, senza timore di smentita, che l’arte sia necessaria e irrinunciabile. E anche che la Bellezza abbia il potere di curare l’anima.
Parzialmente tratto da L’arte come terapia di Cristina Muntoni in La Donna Sarda